Il tempo immobile che se ne va
Nelle città la vita accelera il suo ritorno alla normalità: le ultime immagini del lockdown e della “prima fase 2” si uniscono a uno scatto lontano
Il tempo immobile, se ne va. Era arrivato dal nulla, sospinto dalla pandemia coronavirus, anzi era tornato.
Perché come noi di questo sito crediamo, tutto riaffiora, si ripresenta, cambia, acquista una sua fissità: sembrano contrasti, ma appartengono alla vita e al suo scorrere.
Così, per accompagnare il movimento che si innesca il 18 maggio in Italia e in particolare nel territorio dove per decenni abbiamo lavorato (la provincia di Varese e in particolare la zona che abbraccia Malpensa e ne ha cullato la nascita), abbiamo voluto prima di tutto affidarci a una foto che viene da lontano. Molto da lontano, come rivelano il bianco e il nero, i lineamenti della pellicola. Quando il tempo si fermava, per riversare le famiglie sulle spiagge, sui monti, lasciando pochi a casa. A vegliare e a godere la città diventata più lieve. Era il 14 agosto 1990. E forse ora.
Busto Arsizio, il santuario di Santa Maria immobile sullo sfondo. Più di un filo lo lega al nostro presente: qui c’è la statua della Madonna dell’Aiuto, con la mano alzata perché fermò la peste, si racconta, nel Seicento. Ancora la si è invocata nel nuovo millennio, questa volta contro il coronavirus.
Che cosa sono stati i nostri luoghi, nelle settimane scandite prima dall’isolamento più pressante e pesante, poi dall’alleviamento delle misure restrittive. E che in queste ore hanno atteso una liberazione, che ancora non si può definire tale. Perché il virus è ancora tra di noi e non ha perso i suoi connotati misteriosi. Quelli che ci fanno sentire ancora così fragili.
Da quell’uomo che cammina solitario in una città svuotata dalle ferie, alla stessa zona, ma lo sguardo che si ribalta: quello di un manichino che sembra guardare il santuario durante il lockdown.
Nel salutare questo tempo immobile, profondamente tragico, che ci è parso così nuovo e intollerabile, vogliamo posare gli occhi su altri luoghi della provincia che lo raccontano.
I muri che parlano, anche ciò diventa eco di tempi lontani. Il silenzio che è spazzato via dalla certezza: passeremo anche questa.
Quanti attendono su una panchina. Ora era la panchina ad attendere l’arrivo di un uomo, una storia, mentre l’acqua zampilla senza perdere il suo fare gioioso. Tutto sospeso, tutto ugualmente autentico aspettando che colui che si credere il protagonista assoluto su questa Terra – l’uomo – abbia la possibilità di uscire dalla sua tana.
Il dolore e le promesse in queste immagini. I colori della fantasia di un bambino, quella frase che abbiamo gridato all’inizio, poi più sussurrata perché il dolore era troppo. Perché i numeri perdevano ogni freddezza e acquistavano il loro carico tragico. Andrà tutto bene, solo la voce dei bambini, portata allo scoperto, ce lo fa credere. E se lasciamo parlare i ragazzi, vedremo anche quanto sapranno andare lontano, sfogliando Manzoni e le analogie di pandemie ed epoche.
Ma adesso fermiamoci con le foto di Daniele Belosio, ad aspettare la ripartenza. Il tempo immobile, che se ne va.