Spogli di tutto tranne che di anima
A Milano c’è un luogo che parla da secoli: San Bernardino alle Ossa. E che sfida noi viaggiatori del nuovo millennio
C’è una morte che non ha paura di palesarsi in questo nostro secolo rinnegatore. Per farlo, si è unita all’arte nella sua forma più estrema, quella che sa di ordine e armonia. Spinta dalla fede.
Ecco i volti, i corpi di coloro che riposano senza nascondersi nella chiesa di San Bernardino alle Ossa, a Milano.
Il silenzio nella metropoli
Già, questo noi vediamo, da secoli. Le ossa. L’umanità esposta nella sua fragilità più devastante, spogliata della carne oltre che dell’anima. Eppure osservandoli bene, ciascuno dei teschi non appare uguale all’altro: chi sembra sorridere, chi risulta quasi affranto, chi offre una smorfia indecifrabile. Come se l’anima avesse lasciato la sua impronta. Tutto questo, in un silenzio che fa sentire lontana la metropoli, con la sua corsa, il suo dinamismo, il suo affanno.
Alla fine di un’esplorazione rispettosa di questa chiesa, non sappiamo chi siano quelle persone. Ma forse, per una manciata di secondi, sappiamo chi siamo noi. Viaggiatori del nuovo millennio, aggrappati a uno smartphone che non si trovano mai.
San Bernardino si affaccia sul distretto del design, quell’area che ogni aprile si popola di visitatori da tutto il mondo per il Fuorisalone. La Design Week milanese: glamour, creatività, affari. Tuttavia, è in ombra: accanto a questo santuario, c’è quello ben più imponente di Santo Stefano.
Un compagno di fede silenzioso. Un secondo, accanto al più grande: concetto, questo dei secondi, che ci è caro e vivremo anche nei luoghi talvolta in Punti di ritorno.
Nel suo viaggio secolare, San Bernardino ha guardato negli occhi e nel cuore tutti. La chiesa ha condotto con discrezione all’ossario. Nel santuario oggi la domenica le messe sono celebrate in sriankese.
Nel 1145, in questo spazio verde, per munificenza di un cittadino milanese, Gotifredo da Busserò, venne edificato un ospedale poco discosto dalla basilica dì S. Stefano presso l’attuale via Brolo. Davanti alla basilica fu costruito un cimitero per seppellirvi coloro che morivano in questo ospedale… Nel 1210, in fondo al cimitero presso il vicolo che fiancheggia la basilica, venne eretta una camera per riunirvi le ossa esumate dal cimitero stesso.
L’evoluzione è raccontata nel sito e l’ossario precede la costruzione del santuario, come in un ribaltamento di tempi, morte e nascita. Entrando nella cripta, lo sguardo cerca di salire fino alla gloria degli angeli nella volta, poi però discende sulla Madonna Addolorata, fino a consegnarsi a loro. A questi “innocenti”, come li chiamavano i milanesi, i cui resti diventano essi stessi ornamento. E un messaggio potente.
Perché oggi la morte è altro: immagine da soffocare, realtà di cui parlare il meno possibile e quando si presenta, cacciarla comunque in un angolo, come si può. Mentre qui sembra aver conquistato quasi ogni spazio e si veste pure d’arte.
Nei luoghi e nei secoli
Nella chiesa di San Bernardino, i Disciplini erano soliti calare in cripta i fratelli defunti, avvolgendoli nel loro saio e adagiando una tavoletta con il nome sul loro capo, per poterli identificare un giorno.
Non una pratica rara. Al Castello Aragonese di Ischia si svolgeva un analogo comportamento con le religiose. Posate ad aspettare la decomposizione, che diventava anche un richiamo a chi ancora era in vita (il che ha ispirato anche allestito installazioni artistiche ai tempi nostri) Un promemoria, che oggi ci incute orrore, ma chissà se realmente è così.
La morte, senza pudore. Il riferimento a Siena con San Bernardino può spingere indietro a San Domenico e allo stupore o allo shock che si può provare alla vista di una testa esposta: quelli di Santa Caterina.
O ancora la Chiesa dei Cappuccini in via Vittorio Veneto, a Roma (già proprio nella strada a lungo simbolo del glamour, anche qui), ha qualcosa da raccontarci ugualmente. Nella metà del diciottesimo secolo, nacque la cripta per far posto ai nuovi defunti nel piccolo cimitero del convento: le ossa dei frati riesumati dovevano trovare una degna collazione.
Sono di 3.700 persone i resti mortali che andranno a ornare a loro volta gli ambienti.
Non ho mai visto nulla di più impressionante.
Marchese De Sade, 1775, Viaggio in Italia
Proprio nella sua Francia qualcosa di impressionante si mostrava agli occhi. Le catacombe di Parigi: lunghe 1.500 metri, con una profondità di 20 metri.
Ma restiamo nei nostri confini. E torniamo in un santuario, dove la morte e l’arte si sono incontrate per raccontare qualcosa. Fino ai nostri giorni.
La morte allo smartphone
Si sono susseguiti i secoli e oggi entrare a San Bernardino significa varcare la soglia di una chiesa come tante, a Milano. C’è persino una luminosità gentile nel corpo principale. Poi via via il corridoio che è baciato da segni di riconoscenza per grazie ricevute.
Lo spazio si restringe fino a defluire lì, dove al centro dovrebbe esserci il simulacro della Beata Vergine Addolorata. C’è.
C’è. Ma che voi vi sediate o vaghiate in questo spazio, improvvisamente oscuro, gli occhi si incolleranno lì: a quelle pareti disseminate di teschi e tibie. Distribuiti ad arte, per creare cioè un’armonia di croci. Quelle che un tempo erano la teste di tante, tantissime persone, dolcemente compresse da una rete; riunite a formare simboli con precisione.
Nel nuovo millennio, chi entra mostra atteggiamenti molto vari. Il disorientamento e il rispetto si alternano negli sguardi, che si arrampicano e poi si abbassano sotto forma di preghiera, magari prima di accendere un cero.
Molti turisti sono richiamati qui, anche dall’estero, e dopo un sopralluogo estraggono la macchina fotografica.
Noi abbiamo fatto molta fatica a estrarre la nostra, abbiamo sussurrato quasi scusa, anche se il nostro intento era quello di cercare di diffondere quel racconto muto ed efficace.
Molti di più tirano fuori il cellulare, scattando foto.
Una coppia di giovani sorride, posizionandosi vicino a una fila di teschi, e si immortala in un selfie.
Immortala. Una parola capace di schiudere tutte le contraddizioni di questo tempo, che la morte nega e la morte quasi irride, per fuggire.
Non è neanche l’immagine più stridente che portiamo via. Una donna e la figlia adolescente si aggirano nella chiesa: la prima invita la ragazza a sistemarsi vicino ai teschi e le scatta una fotografia. Il bis ci suscita anche brividi più forte: questa volta le chiede di esibire il pollice, sorridente.
Ok.
Sì, questa ci appare esibizione. Non questi poveri resti, che indossano una loro nobiltà.
Ridi buffone, per scaramanzia. Così la morte va via… Bella la vita che se ne va.
Renato Zero, Il Carrozzone
Bisogna alzare la testa. Scrutare la scena di speranza che affresca il soffitto (Trionfo di anime in un volo di angeli) e rubare qualche raggio di sole dalla finestra.
Leggiamo tante curiosità su questo luogo sacro. Che ha ispirato un’analoga cappella al re portoghese, due secoli fa. Che qui sono sepolti dei discendenti di Cristoforo Colombo.
Anche questo è un nuovo mondo. Quello in cui la morte guarda in faccia, senza essere guardata veramente. C’è un solo giorno – apprendiamo – in cui l’ossario è chiuso, la domenica: in quella stessa giornata la messa si celebra appunto in srilankese.
Le mura parlano, quanto quei volti. Raccontano dell’impegno di persone coraggiose e devote, che hanno preservato l’ossario e la sua storia.
Quando si lascia alle spalle questo edificio silenzioso, dirigersi a San Babila significa sbirciare i lavori per la metropolitana: stanno affiorando resti umani anche qui, ma è un’altra storia.
Fissare le immagini non ci fa più paura. Quello che ci lascia l’amaro in bocca, è la scia di persone con le loro povere cose che giacciono qui e chiedono l’elemosina.
La povertà, come la morte, nel nuovo millennio: nessuno le tende la mano. Non ci stupirebbe nemmeno se qualcuno si avvicinasse a un clochard per scattarsi un selfie.